tratto da “La chiave a stella” di Primo Levi
“Sì perché mio padre me la contava, – ha continuato Faussone: che fin da bambino avrebbe voluto che finissi in fretta la scuola e scendessi in officina con lui. Che facessi come lui che all’età di nove anni era già in Francia ad imparare un mestiere…”.
Queste sono le parole, ad un tempo rivelatrici e autobiografiche, con cui Primo Levi, attraverso il protagonista Faussone, presenta le origini del montatore piemontese, i primi scambi, da ragazzino, con il padre stagnino.
E prosegue ancora parlando del padre: “Lui diceva che doveva morire con il martello in mano ed è così che è morto, ma non è detto che sia la maniera più brutta di morire che quando smetteva di lavorare gli veniva l’ulcera o si metteva a bere e cominciava a parlare da solo…”.
Nel ricordo di Faussone al suo paese era tutto un gran battere il rame, più che tutto facevano rumore con un recipiente stagnato dentro, perché appunto “magnino” vuol dire stagnino.
Ora inizia a parlare del rame.”
Lui sapeva che a battere il rame si indurisce… sì lui lo sapeva, e così parlando è venuto fuori che pur non avendo mai battuto la lastra di rame aveva una buona dimestichezza con il rame: era un misto di amore e odio.
Ormai le pentole di rame stagnato non le voleva più nessuno perché c’erano quelle di alluminio che costavano di meno e poi sono arrivate quelle di acciaio inossidabile con la vernice che le bistecche che non si attaccano così, a un certo punto, di soldi ne entravano pochi, ma di cambiare non se la sentiva.
Gli avevano offerto dei posti di lavoro soprattutto nelle grandi officine che non era poi un lavoro così diverso.
La madre diceva sempre di accettare perché la paga era buona e per via della mutua, della pensione ecc ecc, ma lui non ci pensava neanche perché diceva che il pane del padrone ha sette croste.
Anche la storia del nome di battesimo è particolare: Tino è il diminutivo di Libertino. L’intenzione del padre era di chiamarlo Libero, ma per il segretario comunale fascista non c’era verso, non era accettabile, così si ripiegò su Libertino…credendolo un diminutivo…così come può essere Giovannino…e Libertino è rimasto.
Per il padre la libertà consisteva nel non lavorare sotto padrone…piuttosto dodici ore al giorno in un’officina…ma non sotto padrone, nella fabbrica a fare tutta la vita gli stessi gesti.
Lui non voleva che il mondo cambiasse e siccome il mondo cambia e adesso cambia in fretta, non aveva volontà di stare dietro al cambiamento e così divenne malinconico e non aveva più voglia di niente.
Il giorno che è venuto a mancare, la madre lo trovò morto in officina ed esclamò:” È morto col martello in mano, l’aveva sempre detto”.
3 Mat B Niccolò Ferretti – Carlo Guetta